martedì 13 settembre 2011

Hana Mandlikova e la mia epifania


Era l'estate del 1981. Ero un'adolescente un po' inquieta ma tutto sommato felice, senza grossi problemi in famiglia o a scuola. Certo, sentivo dentro di me una sfasatura, una mancanza, un anelito verso qualcosa di indefinibile.
Questo qualcosa avrebbe preso forma nella maniera più strana durante quell'estate.
 Fino ad allora non avevo mai pensato a cosa volesse dire "mettersi assieme" a un ragazzo; neanche le mie più care amiche ci pensavano molto, non se ne parlava, e a me andava bene così. Sull'argomento ero abbastanza ignorante e non avevo nessuna curiosità. I miei interessi del tempo erano altri, tra cui la lettura.
Davvero non ero attratta da altri? Davvero non avevo preso mai una cotta per nessuno? No, non era così, ma io non lo sapevo, non me ne rendevo conto chiusa com'ero all'interno della rappresentazione fasulla del mondo che ne dava la maggioranza etero.

A quei tempi la Rai trasmetteva  quasi interamente i tornei di tennis del Roland Garros e di Wimbledon, sia maschile che femminile. Il tennis mi piaceva abbastanza, potevo assistere agli spettacolari duelli tra McEnroe e Borg, tra la Evert e la Navratilova - e così via...
Non ricordo esattamente la prima partita in cui la vidi: forse un ottavo di finale addirittura, o più probabilmente dei quarti. Fu un colpo di fulmine: Hana Mandlikova era una giovane giocatrice ceca (anzi, cecoslovacca) che si muoveva sul campo con una grazia e una perfezione adorabili. Il suo gioco era efficace e fantasioso al tempo stesso; slanciata, non muscolosa, un volto paffutello e un po' infantile, due occhi che mandavano dei lampi azzurri, a volte decisi, a volte timidi.
Hana si era già fatta notare proprio in Italia pochi anni prima in un famoso torneo giovanile, da cui erano usciti tanti futuri campioni. Poi l'exploit a Parigi nel 1981: vinse prima i quarti, poi la bellissima semifinale contro la Evert, infine la relativamente facile finale con un'altra outsider, la tedesca Hanika.
Potei anche assistere all'intervista del dopo partita con il mio nuovo idolo, che contribuì a farmela amare ancora di più. Non mi rendevo conto che questo sentimento era oltre il lecito, e non solo perchè mi ero innamorata di un personaggio "televisivo", irraggiungibile. Per inquadrare bene questo mio sentimento avrei dovuto far passare anche Wimbledon dove purtroppo iniziò a uscire fuori il carattere fragile della Mandlikova, che perse malamente la finale con la Evert.
Qui il link a una specie di reportage su quel Roland Garros, qui invece un'analisi precisa del suo stile e del suo modo di giocare a tennis; per il resto su Youtube basta digitare il suo nome aggiunto a quello della Evert e della Navratilova per vedere dei pezzi di quelle partite memorabili.

Cominciai a comprare tutte le riviste di tennis che uscivano all'epoca (ben tre), a cercare sue notizie dappertutto, avidamente. Ci fosse stata internet probabilmente avrei scaricato ogni suo video possibile, ogni foto, ogni notizia; purtroppo io potevo accontentarmi di ben poco: non avevo neanche un registratore di vhs per registrarmi le partite (non so neanche se esistessero all'epoca).
Fino ad allora non sapevo quasi neanche cosa fossero le lesbiche. Conoscevo il termine, certo, e il significato, ma non mi riguardava, non mi interessava l'argomento.
Alla fine di quell'estate la mia ossessione per la Mandlikova iniziò ad inquietarmi un poco, c'era qualcosa di estremamente "sbagliato" in questa cosa, lo sentivo.
Poi una notte successe, lo ricordo come fosse ieri: mi alzai a sedere, al buio, e mi dissi chiaramente "io sono lesbica". Ero terrorizzata e disgustata al tempo stesso, d'un colpo tutte le tracce e gli indizi del passato si misero al loro posto, come in un veloce gigantesco puzzle di ricordi: la mia prima cotta, una ragazzina che era un'amica di una mia compagna delle medie,  il grande amore che avevo avuto i primi due anni di liceo per una compagna di classe, quello durato un'estate per la cugina di un mio vicino di casa, il mio odiare i vestiti femminili, l'essere totalmente disinteressata ai ragazzi.
Non conoscevo nessuno con cui potermi confidare, non subito almeno; non conoscevo nè mi sarei mai accorta di altre persone gay come me per anni; ero sicura che i miei non avrebbero sopportato di sapere questa cosa, che all'epoca mi sembrava quasi come avere la peste.
Era il 1981, forse qualcuno potrà ricordarsi come degli omosessuali si parlasse pochissimo e solo come macchiette o per denigrarli; non c'erano film (quasi), telefilm, personaggi pubblici, asssociazioni, libri pochi e conosciuti solo da intenditori. Qualcosa iniziava ad apparire nella musica pop e rock, ma sembrava più per gusto dell'eccesso che per proporre un proprio valido e normale orientamento sessuale.
Mi sentivo sola come un cane, gravata di un peso enorme; pensavo che non avrei mai potuto avere una vita normale e felice. Avevo dei pregiudizi enormi sull'omosessualità, in realtà non ne sapevo niente.
Passai quasi tutte le notti di quel periodo a piangere. E' stato un periodo molto brutto della mia vita, è qualcosa che so avere avuto una terribile influenza sul mio modo di pensare di quegli anni, ma le cui conseguenze si sono poi protratte molto a lungo. La sfortuna ha voluto che non potessi incontrare nessuno che mi dicesse "ma che cavolo stai dicendo? non sei più anormale di qualsiasi altro adolescente della tua età, non c'è niente di terribile a essere quello che sei, ad amare le persone che ami"; il mio carattere introverso, timido e sensibile ha fatto il resto: mi sono rinchiusa in un guscio sempre più autoreferenziale, buio, triste.
Ho pensato spesso alla morte. Non credo di averlo mai veramente voluto, ma ci pensavo tanto. Alcune volte passavo le notti a pensare quale fosse il metodo più indolore per togliersi la vita; il buon senso mi faceva però sempre concludere che non avrei mai potuto dare questo dolore ai miei, non se lo meritavano. Non avrebbero mai saputo il perchè - questa mi sembrava una cosa ancora più terribile.
Adesso per fortuna esistono associazioni che assistono gli adolescenti gay, molti di loro certamente hanno avuto gli stessi pensieri che ho avuto io. Tanti adolescenti suicidi senza apparente motivo probabilmente sono gay. Spesso si  descrivono questi ragazzi come "senza problemi", "bravi a scuola", "con amici", aventi "buoni rapporti con i genitori", il suicidio sembra "inspiegabile"; manca sempre un tassello per sciogliere l'enigma della loro morte.

Molto lentamente avviai un percorso personale di conoscenza e accettazione di me stessa; iniziai a leggere libri, a documentarmi, a cercare dei modelli e degli esempi positivi. Dopo un anno mi confidai con le mie due migliori amiche, anche se servì a poco. La Mandlikova uscì gradualmente dai miei pensieri, sia perchè si ritirò molto presto dai campi da gioco, sia perchè seppi che si sposò con un australiano; questa cosa mi deluse un po', anche se sembrava perfettamente normale. Solo dopo tanti anni seppi che lei era lesbica e che aveva una relazione con la Novotna (il matrimonio con l'australiano era finito da parecchio tempo, durato un paio d'anni), la giocatrice ceca come lei che si mise ad allenare nella sua seconda carriera nel tennis; fragile psicologicamente come la sua maestra riuscì però a vincere il Wimbledon che sfuggì alla Mandlikova tanti anni prima - ma io ormai non seguivo più il tennis e neanche la Rai (qui ho trovato notizie più recenti - la sua nuova compagna, la fecondazione assistita, la maternità).
Oggi gli adolescenti gay fanno coming out molto presto, a parte le situazioni di non accettazione in famiglia di solito riescono ad avere le loro storie, ad amare in maniera spontanea e non colpevolizzante i loro compagni e le loro compagne; frequentano i luoghi di ritrovo gay, vanno ai Gay Pride, si divertono, vivono la loro vita, magari con qualche battaglia in più da combattere rispetto ai loro coetanei etero: ma lo fanno a viso aperto, con coraggio.
Io ho dovuto guardare delle partite di tennis alla tv per rendermi conto della mia omosessualità: non il modo migliore di iniziare a vivere i sentimenti più naturali del mondo in una fase così delicata come l'adolescenza.
Auguro a tutti i giovani gay e le giovani lesbiche che possano vivere con serenità le loro vite, e spero che quelli che non vivono in occidente e che hanno adesso molti problemi possano un giorno avere il diritto di amare a viso aperto, come tutti.


martedì 6 settembre 2011

Lontano dal paradiso

Ieri sera ho rivisto in Tv il film "Lontano dal paradiso", in cui si incrociano le tematiche del razzismo e dell'omosessualità in maniera abbastanza originale.
Ambientato durante gli ipocriti, patinati, ingessati e segregazionisti anni '50 questo film parla dell'impossibilità delle relazioni umane, impossibilità data dalla rigidissima gabbia sociale che soffoca ogni parvenza di libertà, spontaneità e amore vero.
Il fatto che la protagonista al centro del "triangolo" (che triangolo non è a dire il vero) sia una donna non è senza conseguenze nell'acuire la drammaticità delle storia: diversamente l'amore di un uomo bianco verso una donna di colore sarebbe sì stato disapprovato, ma avrebbe trovato altri modi clandestini per proseguire, occultandosi magari dietro i comportamenti "da padrone bianco con licenza". Lo stesso dicasi per l'omosessualità del marito della protagonista: se il marito fosse stata una moglie avrebbe certamente perso la possibilità di vedere i bambini, rimanendo tra l'altro con seri problemi economici (cosa che non succede a Dennis Quaid, l'attore che interpreta il marito).
Qui l'omosessualità per quanto deprecata è già nell'orizzonte delle cose che possono accadere - anche se ipotizzata come malattia o vizio; per gli uomini poi è relativamente facile viverla attraverso sotterfugi, luoghi di ritrovo, e quel codice maschile particolare che riesce ad andare al sodo nei posti e nei momenti più impensabili - nel film con pochi accenni si riesce a dare conto di tutto ciò.
L'amore interrazziale invece è tabù, qualcosa di impensabile anche per l'amica delle protagonista pur disposta alla comprensione più totale.
Questo film mi mette angoscia ogni volta che lo rivedo; la rete sociale fatta di tanti occhi indagatori, di tante gabbie invisibili ma pesantemente presenti mi ricorda tanto quella che vedevo io nella mia adolescenza, dove mi sembrava che le persone avrebbero addirittura potuto leggere nella mia mente il mio "innaturale" interesse per le ragazze. In quegli anni lontani avevo dentro di me gli anni '50 americani - un censore severissimo e disgustato che non mi lasciava altra alternativa che la dissimulazione.